la Repubblica - 09.11.2019

(Brent) #1
dal nostro corrispondente
Antonello Guerrera

LONDRA — Pete Townshend dice
di essere rinato a Bologna, nel


  1. «Suonavamo a un concer-
    to», ricorda il leggendario chitarri-
    sta degli Who che incontriamo in
    un club londinese a Sloane Squa-
    re. «A un certo punto noto che tra
    gli spettatori, vicino al palco, c’e-
    rano dei ragazzi. Erano molto di-
    vertiti, ma separati dagli altri. Al-
    lora ho chiesto al promoter chi fos-
    sero, e lui mi ha risposto che si
    trattava di rifugiati siriani. Non
    ho dormito quella notte. Neanche
    un minuto. Era tutto così commo-
    vente. Ero di fronte a qualcosa di
    magico».
    Anche per questo ora Town-
    shend sta vivendo un nuovo fuo-
    co creativo, “behind your eyes”,
    dietro i suoi occhi sempre più ce-
    lesti, come recitava un successo
    della sua band. Il 6 dicembre usci-
    rà un nuovo album degli Who,
    omonimo, in cui ha scritto la can-
    zone I don’t wanna get wise (“Non
    voglio diventare saggio”) in onore
    del cantante e storico compagno
    di viaggio Roger Daltrey: «La vera
    saggezza arriva quando sei sul let-
    to di morte», racconta, «ma a Ro-
    ger devo tanto. Nel 1961 sono en-
    trato nella sua band The Detours
    perché ero un ragazzino che non
    riusciva a fare a botte, sempre ner-
    voso, che avrebbe perso la vergini-
    tà solo a 18 anni. Dovevo essere in
    un gang. Daltrey era il bullo per-
    fetto per sentirmi al sicuro».
    Poi c’è The age of anxiety, il suo
    primo romanzo appena uscito in
    Regno Unito, dopo cento milioni
    di dischi venduti. Sì, “l’età dell’an-
    sia”, su una rockstar che scompa-
    re in Yorkshire per diventare ere-
    mita e “pittore di visioni apocalit-
    tiche”. Stessa poliedricità anche
    per Townshend, anche se non è
    un “the real me” stavolta: «Questo
    romanzo è solo per il 20% autobio-
    grafico», ma diventerà libretto, e


«quindi un’opera a inizio 2021», ol-
tre a un’installazione artistica,
che si nutrirà di nuove tecnolo-
gie, social network e i precetti dei
suoi vecchi maestri (tecno)artisti
Harold Cohen, Roy Ascott e Gu-
stav Metzger. «Più in generale pe-
rò», rimarca Townshend, «tutto è
nato da nuova musica elettronica
cui non sapevo dare una forma e
che poi ho convertito all’organo
per creare ancora di più caos e
complessità armoniche».
Tante le influenze, soprattutto
letterarie, come L’uomo di ferro
del poeta Ted Hughes e un altro
suo eccelso amico, William Gol-
ding, che gli ha insegnato il segre-
to dell’ispirazione: «Una volta mi

disse che per essere veri creativi
bisognava fissare un muro vuoto.
Magari la luce dietro di te. Ma
niente finestre davanti, solo un
muro. E frasi brevi», come le centi-
naia di canzoni, spesso indimenti-
cabili, che Townshend ha scritto.
«L’attesa è l’arte nera della creati-
vità», ammonisce.
Del resto, per il capolavoro Tom-
my «mi ispirai al Siddharta di Her-
mann Hesse», ricorda il profeta ni-
chilista della chitarra, «ma Tom-
my in realtà ero io: un ragazzino
del dopoguerra, abbandonato dai
suoi straordinari genitori e poi
abusato più volte da uomini per
colpa di una nonna matta». Tene-
bre che sono riemerse nel 2003,

quando Townshend è stato becca-
to online in un sito di pedoporno-
grafia, per poi essere scagionato
senza alcuna accusa. Una mac-
chia giustificata dal suo maledet-
to passato e dalle sue «indagini
sui legami tra pedofili e banche»,
come scritto nell’autobiografia
Who I am del 2012: «Perciò in que-
sto romanzo non sono riuscito a
descrivere neanche un bambino
o una ragazzina. Niente. Temevo
di essere incolpato per ogni paro-
la, di fomentare i giustizieri
dell’“elefante in una stanza”».
È un fiume in piena, Pete Town-
shend, durante il nostro incontro,
organizzato dalla Foreign Press
Association (Fpa). Parla della mu-
sica che apprezza oggi, soprattut-
to sulla piattaforma Bandcamp:
Billie Eilish, Taylor Swift e Ken-
drick Lamar, mentre «non andrei
mai a un concerto degli Who per-
ché è roba troppo macho-sdolci-
nata. Al massimo i Rolling Stones
o i Primal Scream». «David Bowie
poi», sbotta all’improvviso, «l’ho
inventato io, cazzo! Venne alla pri-
ma di Tommy alla Royal Albert
Hall di Londra, gli dissi di dare
un’occhiata al mio nipotino e poi
a fine serata mi disse giubilante:
“Anch’io farò una cosa simile! An-
che io!”». Townshend è pure socia-
lista ma non voterà mai Corbyn:
«Non voglio tornare povero come
negli anni Settanta».
Settant’anni, anzi 74, li ha an-
che lui adesso. È passato all’oppo-
sta, rugosa trincea di My genera-
tion. «Ma io non mi sono mai consi-
derato un ribelle», spiega Town-
shend con un velo di tristezza,
«noi volevamo solo tirare una li-
nea rossa per differenziarci dai
più vecchi e farci sentire. I veri ri-
belli sono Greta Thunberg o i ra-
gazzi di Hong Kong. Non gli Who.
Così come», confessa, «non mi so-
no mai sentito a mio agio nei con-
certi, Io sono uno scrittore, un arti-
sta. Sul palco non mi sono mai di-
vertito davvero».

Spettacoli


Townshend


si confessa


“Così inventai


Bowie”


Il chitarrista presenta


il primo romanzo


alla vigilia dell’uscita


del nuovo album


degli Who


“Ribelli noi? Mai”


kIeri e oggi
Sopra, Townshend in concerto
Sotto, in primo piano, negli anni 60
con gli Who: da sinistra Keith Moon,
John Entwistle e Roger Daltrey

©RIPRODUZIONE RISERVATA

pagina. 40 Sabato,9 novembre 2019

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