la Repubblica - 22.10.2019

(Brent) #1
o sempre
ammirato John le
Carré.
Un’ammirazione
non sempre
sprovvista di
invidia — così tanti
bestseller! — ma piena di meraviglia
per il fatto che l’opera di un artista di
simili capacità letterarie sia riuscita
ad avere un successo così grande
presso il grosso pubblico. Il fatto che
le Carré, alias David Cornwell, abbia
scelto di ambientare i suoi romanzi
quasi esclusivamente nel mondo
dello spionaggio ha consentito a certi
critici di liquidarlo come non
appartenente alla categoria degli
scrittori seri, un mero intrattenitore.
Ma con almeno due dei suoi libri, L a
spia che venne dal freddo (1963) e L a
spia perfetta (1986), ha scritto dei
capolavori destinati a durare nel
tempo. Quale altro scrittore sarebbe
riuscito a produrre romanzi di
qualità tanto costante nell’arco di
una carriera che abbraccia quasi
sessant’anni, da Chiamata per il
morto del 1961 alla sua ultima fatica,
La spia corre sul campo, che pubblica
a 88 anni? E anche se ha lasciato
intendere che questo sarà il suo
ultimo libro, sono pronto a
scommettere che non ha ancora
finito: è intellettualmente energico e
politicamente consapevole come
non mai, in tutta la sua lunga vita.
La trama del nuovo libro ruota
intorno a una collusione segreta fra
gli Stati Uniti di Trump e i servizi di
sicurezza britannici allo scopo di
minare alla base le istituzioni
democratiche dell’Unione Europea.
«È orrendamente plausibile», dice
con un certo piacere quando ci
incontriamo nella sua casa di
Hampstead. Il piacere è legato alla
trovata narrativa, non alla sua
orrenda plausibilità, e subito spunta
fuori il padre truffatore, con le sue
grandi sopracciglia e il suo sorrisetto
fin troppo plausibile. Ronald
«Ronnie» Cornwell era un genio della
truffa, capace di suscitare ancora
oggi sgomento in suo figlio. «Nella
vita ho avuto la fortuna», dice, «di
nascere con un soggetto narrativo già
pronto, la straordinaria, insaziabile
criminalità di mio padre e delle
persone che aveva intorno».
Le Carré parla dei suoi nipoti, «tutti
sconvolti dalla Brexit e dall’idea di
essere privati della libertà di
movimento, e così via. Io dico:

“Guardate, la verità è che voi avete
vissuto in molte città straniere e
sapere che a conti fatti non troverete
mai una conversazione migliore, una
raffinatezza maggiore, una facilità di
contatto sociale come quelle che
potete trovare a Londra o in Gran
Bretagna”». Gli dico che ho vissuto a
Londra per un anno, alla fine degli
anni ’60, e venendo da un’Irlanda
che a quei tempi era ancora
saldamente sotto la morsa della
Chiesa cattolica non finivo di
stupirmi della libertà di movimento

che mi era concessa, specialmente su
e giù per i vari scalini delle infinite
gradazioni del sistema di classi
sociali inglese.
Ma sicuramente tutto questo ora
è a rischio, con il Paese così diviso
sull’Europa, no?
«Sì, è così. Tribuni della plebe come
quelli che abbiamo, vedi Boris
Johnson, non parlano con la voce
della ragione. Quando entri a far
parte della categoria il tuo compito è
infiammare la gente con la nostalgia,
con la rabbia. È quasi incredibile che

queste persone dell’establishment —
Farage, per esempio — parlino di
tradimento: “Io sono tradito dal
Parlamento, tradito dal governo:
sono un uomo del popolo”».
Ma non ci sono soltanto motivi di
ira e di pessimismo.
«Penso che tutto sia controllabile, se
viene ripristinato il contratto sociale.
Non si può sostenere l’esistenza di
regole del gioco uguali per tutti in
questo Paese fintanto che esistono
istituzioni esclusive come
l’istruzione privata, la sanità privata,

Difendiamo


Achille Lauro


che reinterpreta


Luigi Tenco


La carezza


In edicola tutta la settimana a 50 centesimi


Roberto Calasso inedito


è solo su Robinson


di Francesco Merlo

P


uò far sorridere che, dopo 52
anni, ci si accapigli ancora nel
nome di Luigi Tenco, che ci sia
qualcuno che ne difenda la
presunta purezza, e che siano
insorti i custodi del tempio di Ciao
amore, ciao e Angela contro Achille
Lauro, il rapper supertatuato che
si è permesso di reinterpretare e
dunque deformare Lontano,
lontano. È vero che l’esibizione al
Premio Tenco di Achille Lauro,
accompagnato al piano da
Morgan, non è stata epica, ma
forse non si fa un buon servizio a
una memoria se la si sequestra, se
la si sacralizza. Si onora di più
l’artista-simbolo dei disagiati e dei
fuori-luogo applaudendo un
insuccesso invece di fischiarlo
come una blasfemia. E va bene che
la famiglia di un artista suicida ha
diritto al dolore e al rispetto anche
dopo 52 anni, ma non bisogna mai
confondere il senso della storia
con i propri affetti e le proprie
ferite, si tratti di musica o politica
o terrorismo o antimafia. Per
cantare Tenco non ci vogliono
certificati di autenticità artistica
né di purezza anticommerciale. Ed
è chiaro che i grandi italiani
appartengono all’Italia e non ai
loro nipoti. Questo vale per tutti
nell’Italia del pasticcio-famiglia,
da Falcone e Borsellino sino
appunto a Luigi Tenco. Il suo
suicidio nel 1967 è un ricordo
“lontano, lontano”, depositato
nella memoria collettiva. Per i
ragazzi d’Italia fu come leggere il
Tristram Shandy; fu l’antiromanzo
dei narcisisti feriti. Le sue canzoni,
che ogni tanto ancora le radio
mandano in onda, sono care al
nostro cielo perché sono morte
giovani e dunque congelano una
mitologia, quella appunto
«dell’aria triste che tu amavi
tanto». A chi allora era ragazzo
capita ancora che «qualche cosa
negli occhi di un altro» lo rimandi
a quegli occhi majakovskijani,
accesi, teneri e impauriti, e
dunque all’altra faccia della
generazione del vietato vietare e
dell’utopia del mondo al contrario,
la faccia dolente e disperata che
nella voce di Tenco è concentrata
e che non è stata raccontata dalla
sociologia dei pugni in tasca e
della lotta di classe, dalla rabbia
politologica degli ex professorini
di quegli anni. A tutti quelli che nel
1967 non erano nati Tenco riesce
ancora a trasmettere un po’ di
quella intelligenza sofferta, di
quella rabbia senza molotov, e non
tanto con la sua musica e le sue
parole che, acerbe e molto
promettenti, non sono né la Nona
di Beethoven né gli Ossi di seppia
di Montale, quanto con la sua voce
«che ormai canta nel vento» e
rimane inimitabile perché è
ragionamento sonoro ed
emozione, la voce della
trasgressione italiana che per non
essere scema, per non esprimersi
con 24 mila baci dovette essere
tragica, una voce che voleva fare
male e farsi male. Ed è bello che,
per merito di Achille Lauro, siamo
qui a riparlarne, proprio come,
«lontano, lontano nel tempo», lo
stesso Tenco previde: «E ad un
tratto, chissà come e perché / Ti
troverai a parlargli di me».

Mancano pochi giorni a Lucca Comics & Games, la grande fiera del fumetto
in programma dal 30 ottobre al 3 novembre: nell’attesa, il servizio di coperti-
na di Robinson, in edicola tutta la settimana, è una storia esclusiva scritta e
disegnata proprio da uno dei protagonisti della kermesse, Zerocalcare (che
è anche intervistato dal nostro Luca Valtorta). C’è poi la guida completa a
tutti i grandi eventi del festival, a cominciare da quelli della nostra Sala Ro-
binson. Tra gli altri piatti forti del numero: un articolo di Roberto Calasso
scritto apposta per noi, in cui racconta ai lettori temi, spunti e suggestioni
alla base della sua ultima fatica, Il libro di tutti i libri (Adelphi); Valeria Par-
rella che ci illustra i capolavori di Giorgio de Chirico (Milano, Palazzo Rea-
le); Gabriele Romagnoli che rilegge Jack Kerouac.

Errata corrige
Il libro di
Margaret
Atwood
I testamenti
è pubblicato
da Ponte alle
Grazie e non
da Neri Pozza
come
erroneamente
scritto ieri
Ci scusiamo
con i lettori e
con gli
interessati

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pagina. (^32) Cultura Martedì, 22 ottobre 2019

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