La Repubblica - 12.08.2019

(Steven Felgate) #1
incent van Gogh
nacque il 30 mar-
zo 1853 nel presbi-
terio di Zundert,
un paesino di sei-
mila abitanti, da
Theodorus van
Gogh, pastore calvinista. Non è sta-
to soltanto uno dei massimi pittori
dei tempi moderni, esaltato anche
da Monet, ma uno scrittore, che pos-
sedeva una gamma verbale compli-
cata e coloratissima. Scrisse (o ci ri-
mangono) 821 lettere, per la mag-
gior parte indirizzate al fratello
Theodorus, detto Theo, di quattro
anni minore di lui (l’edizione com-
pleta e illustrata di tutte le lettere fu
curata per il Van Gogh Museum di
Amsterdam da Leo Jansen, Hans
Luijten e Nienke Bakker nel 2009, e
messa in linea; una selezione italia-
na di tale edizione uscì da Donzelli
nel 2013, con il titolo Scrivere la vita;
ma diverse e parziali scelte sono
uscite in Italia per Guanda, Silvana,
Einaudi). Vincent e Theo avevano
gli stessi capelli rossi, e gli stessi oc-
chi azzurro pallido. Per tutta la vita
Theo aiutò, consigliò, soccorse Vin-
cent: forse ci fu un eccesso di prote-
zione, che a volte offese l’umbratile,
suscettibile, delicatissimo animo di
Vincent. Era malato, anzi malatissi-
mo. Probabilmente aveva una malat-
tia terribile: la schizofrenia.
Van Gogh era ossessivamente reli-
gioso: divorato da tutto ciò che è tra-
scendente e fiammeggiante: dal
Vangelo, dall’Imitazione di Cristo,

da Bossuet — da una religione insie-
me coltissima e plebea. Come un ve-
ro sacerdote predicò tra i minatori
del Borinage. Lo slancio religioso si
mescolò con un egualmente intenso
desiderio erotico. Si fidanzò più vol-
te: coltivò prostitute, sia per motivi
erotici, sia per redimerle ed esserne
redento. Forse gli uomini non esiste-
vano; egli cercava di liberarsi dalla
terra e dagli uomini, camminando
la notte sulla spiaggia sotto la luna e
fissando tutte le possibili stelle, le
stelle reali e le stelle immaginarie,
che gli sembravano zaffiri e diaman-
ti.
Falliva sempre: perché in certo
modo la pittura era qualcosa di inef-
fabile e di incomprensibile, che sta-
va migliaia di miglia sopra il suo ca-
po. Disprezzava la misura e l’equili-
brio. Aveva bisogno di esagerazione
e di eccesso: trovava insufficienti
persino Monet e i grandi impressio-
nisti; e si rivolgeva sempre più indie-
tro, verso Rembrandt, Ruysdael, Mi-
chelangelo.
Il fratello Theo credeva nel suo ge-
nio: «se riuscirà nel suo lavoro, sarà
un grand’uomo». Theo avrebbe con-
tinuato sempre a soccorrerlo: lo
amava con una intensità dolorosa;
ma nessuna forma d’amore riusciva
a saziare il cuore lacerato di Vin-
cent. Né religione, né pittura, né
amore gli bastavano. Non sapeva co-
sa desiderare: solo le stelle in cielo
calmavano la sua anima lacerata. De-

siderava soltanto le stelle in cielo.
Nell’ottobre 1880 Vincent andò a
Bruxelles — in una delle filiali della
casa d’arte Goupil, dove uno zio mer-
cante aveva tentato di inserirlo dal
1869 — prendendo alloggio in un al-
berghetto, come poi avrebbero fatto
Joseph Roth e Emil Cioran. Faceva
la fame. Nel 1881 si recò a Etten, do-
ve si era trasferito il padre. Lesse
Charlotte Brontë e si identificò con
la sua famiglia. Cime tempestose di
Emily Brontë stava sempre sullo
sfondo della sua mente. Davanti a
una donna amata e ai genitori di lei,
espose la propria mano sulla fiam-
ma di una lampada, e si bruciò — de-
siderando il fuoco sopra ogni cosa: il
fuoco, sostanza dell’universo. Nel
novembre 1881 cominciò a disegna-
re e a dipingere «moltissimo»: «devo
potere esprimere attraverso il dise-
gno e la pittura quello che ho dentro
la mente e il cuore».
In quel tempo — spostandosi con-
tinuamente fra L’Aia, Nuenen, dove
si erano trasferiti ora i genitori, Am-
sterdam, Anversa — vide e lesse Rem-
brandt, Shakespeare, Michelangelo,
Delacroix, Victor Hugo, Ruysdael, e
molto Balzac. Ammirò la Malinconia
di Dürer. Rifiutava la vecchia teolo-
gia calvinista; e si innamorò di Sha-
kespeare, in cui vedeva riflessa la
propria enorme ricchezza spiritua-
le. Avrebbe voluto sposare Cristina,
la sua «povera, debole e maltrattata
mogliettina». Ma la famiglia si oppo-
se. Vincent era malinconico e irrita-
bile, e il fratello non riusciva a pla-
carlo.
Dopo la morte del padre, nel 1885,
dipinse il suo primo cosiddetto ca-
polavoro: I mangiatori di patate, che
io non amo. Venne accusato di aver
generato un figlio da una contadina
(ma l’accusa era falsa). Ad Amster-
dam ne visitò i musei, e il Rijksmu-
seum, dove ammirò specialmente i
quadri di Rembrandt e di Frans
Hals. Ad Anversa, dove non apprez-
zò Rubens, scoprì le stampe giappo-
nesi.
Come pittore, cercò presto la più
grandiosa esagerazione. Nulla gli ba-
stava mai. Progettava continuamen-
te quadri: «mescolo al rosso un ver-
de, per avere un verde rossastro e
un rosa verdino, ma fondendolo col
bianco, ottengo rosa verdastro o ver-
de rosato. Se vuoi — scrisse a Theo
nel 1885 — aggiungendo del nero, ot-
terrai un rosa verdastro o un verde
rosato. Aggiungendo ancora del
marrone, ottengo un verde marro-
ne, o un marrone verdastro». Cercò
l’influsso reciproco di due colori ge-
melli, del carminio sul vermiglio, di
un viola rosato su un viola azzurro.
Delacroix — notò — diceva che Vero-
nese sapeva dipingere un nudo di
donna bionda con un colore di fan-
go, in modo tale, che la donna appa-
riva bionda, bella e luminosa. «Di-
pingo il muschio bianco e grigio con
un colore che è letteralmente fango,
mentre nel quadro sembra lumino-
so». Sapeva che ci sono soltanto tre
colori fondamentali: rosso, giallo e
blu. E partendo da quelli, avrebbe
cominciato a dipingere con colori
complementari, mettendo a contra-
sto l’azzurro e l’arancio, il rosso e il
verde, il giallo e il viola, il nero e il
bianco, come faceva Delacroix.
Il 28 febbraio 1886 arrivò a Parigi,
e si fermò a casa del fratello, restan-
dovi per due anni. Theo gli fece co-
noscere Monet, Sisley, Pissarro, De-
gas, Renoir, Seurat, Signac, e Gau-
guin — questo pittore mediocre —
con cui finirà per litigare violente-
mente. Dopo Manet e Whistler, Vin-
cent si era innamorato delle stampe
giapponesi, di cui adornò le pareti

Cultura


di Pietro Citati


l’artista geniale

Vincent

che inseguiva

le stelle

Nessuno è stato come Van Gogh. Nessuno ha dipinto tanto quanto lui


Il rapporto con il fratello Theo, con le donne e gli impressionisti


La schizofrenia, i colori. E una ricerca mai soddisfatta di assoluto


V


Solo il cielo calmava


la sua anima


lacerata


Né la religione,


né gli amori,


né la pittura


potevano bastargli


pagina. 28 Lunedì, 12 agosto 2019

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