La Repubblica - 12.08.2019

(Steven Felgate) #1

Il dialogo


Carlo Verdone


“Con Woodstock


vedemmo la luce”


g


In cantiere eventi


per le piattaforme: la


storia della dynasty


della famiglia Gucci


Dario Argento mi ha


concesso i diritti


di “Profondo rosso”


di Stefano Massini

il progetto

La tragedia di Vermicino


diventa una fiction


Il produttore Marco Belardi: “La serie è destinata a Mediaset


Racconterà come quella lunga diretta cambiò la tv e l’Italia”


produttore
Marco Belardi,
46 anni, si divide
tra cinema E tv

f


g


Oggi avresti
il pubblico
che canta
e dà le spalle
al palco per
farsi il selfie
È cambiato
totalmente il
concetto di
condivisione
Adesso si
condivide con
chi non c’è

f


Box office Usa “Fast & furious” resta in vetta
Fast & Furious - Hobbs & Show, primo spin off della saga, diretto
da David Leitch, resta in vetta al box office americano. Il film ha
rastrellato nel week end altri 25,4 milioni di dollari per un totale
in due settimane di 108 milioni di dollari

Spettacoli


jStorie
d’autore
A fianco, Carlo
Verdone e
Stefano Massini.
In alto, John
Sebastian
durante il suo
set. A destra,
Jimi Hendrix.
Sotto, la
copertina
del libro
Woodstock 3
giorni di pace e
musica di
Michael Lang
(Rizzoli Lizard)
da cui sono
tratte le foto

di Silvia Fumarola

Il produttore Marco Belardi raccon-
ta che nel giugno 1981 c’era anche
lui tra gli spettatori della diretta tv:
Alfredino Rampi era precipitato in
un pozzo a Vermicino. Belardi aveva
otto anni, mentre un altro bambino
di sei, di cui i giornali pubblicano la
foto, sorridente con la canottierina
a righe insieme al fratello Riccardo,
lotta contro la morte. La sera del 10
giugno è caduto in un pozzo, i tg pri-
ma danno la notizia poi scatta la di-
retta: diciotto ore. L’Italia si ferma,
21 milioni di spettatori davanti alla
tv. Alfredino muore il 13 giugno do-
po 60 ore di agonia. Niente sarà più
come prima, è una sconfitta colletti-
va, quell’evento cambia per sempre
la tv. «Ricordo la sensazione di spe-
ranza, di attesa e la paura» racconta
Belardi «Quello per Alfredino fu un
lutto nazionale. Ricordo l’arrivo del
presidente Sandro Pertini che rima-
se lì, per ore, il tifo per Angelo Liche-
ri che si calò per salvare il bambino.
Quando Mediaset mi ha chiesto di
realizzare la fiction, mi sono detto
che era arrivato il momento giusto».
La vicenda di Vermicino a reti unifi-
cate segna un prima e un dopo. «Lo
considero il primo reality» dice Be-
lardi, che ha incontrato la famiglia
Rampi «Racconteremo la spettacola-
rizzazione della tragedia ma anche
l’unico aspetto positivo, che dopo
quei tentativi falliti senza una solida
organizzazione, nacque la Protezio-
ne civile». Ancora ci si chiede se fu
giusto, oltre la cronaca, trasmettere
quell’agonia — Alfredino Rampi mo-
rì il 13 giugno 1981 — oggi ha senso fa-
re una serie? «È un evento che ha se-
gnato l’Italia e ha cambiato profon-
damente il rapporto con la tv» dice
il produttore «lo spiegheremo a chi
non l’ha vissuto. Inizieremo a girare
nel 2020 per andare in onda nel qua-
rantennale della tragedia, il 2021.

Nessuna speculazione, faremo una
donazione al Centro Alfredo Rampi
che organizza corsi di sicurezza per
i ragazzi».
Premiato con il Nastro d’argento
e il David di Donatello, socio di Leo-
ne Film group con la sua Lotus, Be-
lardi ha in cantiere la storia della dy-
nasty Gucci. «Ho avuto la liberatoria
dalla famiglia» spiega Belardi «rac-
conteremo il processo ma soprattut-
to un’avventura umana e imprendi-
toriale, l’ascesa del marchio nel
mondo. Facciamo ricerche da tre an-
ni. sarà realizzato per una piattafor-
ma». Sempre destinato «a Amazon o
a Netflix sarà il remake di Profondo
rosso. Non so ancora se sarà film o
un formato lungo» dice il produtto-
re, «Dario Argento è contento, non
aveva mai ceduto i diritti a nessuno.
Penso che lo affiderò a un regista
spagnolo, sono bravi nell’horror. Le
piattaforme vogliono garanzie e tito-
li evento, Profondo rosso è un
brand». Dal cinema alla tv, produtto-
re dei film di Paolo Genovese, prepa-
ra per Mediaset la serie Tutta colpa
di Freud con Claudio Bisio.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
.

HENRY DILTZ

DAN GARSON

«Nell’agosto del 1969 tu non eri na-
to, io avevo 18 anni: vieni giovedì a
casa da me, che ti racconto Wood-
stock...» È iniziata così la storia di
questo strano incontro: mezzo se-
colo dopo l’evento di Bethel che fu
il re dei concerti, mi presento di
buon’ora da Carlo Verdone per far-
mi spiegare quei tre giorni di Peace
and Rock. D’altra parte, chi meglio
di lui? Carlo è una delle massime au-
torità in materia, e a darmene ripro-
va non è solo la dettagliata disami-
na dei fatti, quanto la luce che gli il-
lumina il volto ogni volta che l’al-
bum dei ricordi materializza sul ta-
volo i mostri sacri del Pantheon
Rock: lui non solo li ha conosciuti,
ma con qualcuno ha perfino suona-
to, e Santana lo fece assistere da die-
tro le quinte al suo concerto all’O-
limpico.
Ma è quando gli mostro una foto
di Jimi Hendrix a Woodstock, che
intuisco dove stia il confine fra l’e-
sperto e il cultore, laddove quest’ul-
timo implica un coinvolgimento
profondo, parente di certi graffi
dell’anima: «Io a quest’uomo devo
dire grazie, sai? Mi ha colorato l’esi-
stenza. Quando ascoltai il suo pri-
mo LP, fui come folgorato. E pensa:
c’era un brano che non mi piaceva,
ma oggi ti dico che è il più bello. Era
un appuntamento col mio futuro,
come se Hendrix avesse messo in
musica quello che ero e quello che
sarei stato». Annoto queste parole
e non riesco a non pensare che so-
no le stesse di Italo Calvino sui clas-
sici. Jimi Hendrix come Omero?
Perché no? Parliamo della capacità
di esprimere un tratto comune agli
esseri umani, e con esso lo spirito
del proprio tempo, togliendogli i
confini. Per cui Woodstock — mi
sembra di capire — fu un po’ questo:
il massimo simbolo di un’epoca
(con i suoi miti, i suoi ritmi) proietta-
to però in una dimensione che non
smette di parlare. «Guarda questa
foto: migliaia di visi sotto il palco.
Puoi dire che è solo un concerto.
Ma no, non lo è. Questa gente stava
lì per qualcosa che era oltre la musi-
ca: la vera arte nasce sempre da
una visione del futuro». E mentre
pronuncia queste parole, è impossi-
bile non avvertire una malcelata no-
stalgia, che sarebbe tuttavia banale
ricondurre al trito refrain degli
ideali tramontati.
Carlo, infatti, si spinge oltre: «Mi
manca quel prendersi il rischio.
Woodstock insegna che se ci credi,
puoi darti del tutto, a capofitto. Pen-
sa a Joe Cocker: alla fine della can-
zone è quasi rauco, è una specie di
autodistruzione, da brividi. Capi-
sci? Qui c’è un uomo con un’ener-
gia tale che è un sacerdote, folle, in
questo grande rito spirituale e lai-
co...». Già, un rito. In effetti un sapo-

re di sacro emana, fortissimo, dalle
incisioni audio in cui si apprezza
l’incredibile silenzio della moltitu-
dine durante le esibizioni. Rispetto
per l’artista? Non solo. Come mi di-
ce giustamente Carlo, c’era ancora
un senso alto dell’ascolto, senza il
quale non puoi capire dove stia la
differenza con megaeventi di musi-
ca elettronica come l’Untold Festi-
val (che comunque non compete
coi numeri di Bethel): «Oggi non tro-
veresti traccia di quel silenzio, avre-
sti anzi il pubblico che canta lui e
dà le spalle al palco per farsi il sel-
fie. In questi cinquant’anni abbia-
mo assistito a una cambio radicale
del verbo condividere. A Wood-
stock condividevano con chi era lì
con loro, oggi invece condividono
con chi non c’è. Insomma, a Wood-
stock non c’erano singoli individui
col proprio cellulare, c’era un’uma-
nità». Ed ha ragione: perfino a me,
estraneo per età a quel mondo, le fo-

tografie raccontano che il popolo
di Woodstock vibrava per una mis-
sione autoconferita, quella di reg-
gere il timone a un mondo in evolu-
zione. Carlo annuisce, sornione: «Il
pubblico fece addirittura una dan-
za tribale, per far smettere di piove-
re. Era un gioco, certo, ma nascon-
deva il punto di fondo: queste per-

sone credevano di avere un ruolo,
di poter cambiare le cose, far torna-
re il sole. In parte ci sono pure riu-
sciti: la segregazione razziale, la
condizione femminile...». E qui di
nuovo un’ombra si allunga sulla fra-
se. C’è un enigma nell’eredità mora-
le (e politica) di quei tre giorni, una
disillusione di cui chiedo ragione a
Carlo. Lui non mi risponde, fissa lo
sguardo su una foto degli Who, è co-
me se il quesito lo rivolgesse a loro.
Solo dopo un po’ ci prova: «Fu co-
me una fiamma, che fa una gran lu-
ce ma brucia tutto insieme. È la
grande contraddizione: volevano
cambiare il mondo ma restando
per sempre giovani e controcorren-
te. Gli Who cantavano “fammi mori-
re prima che diventi vecchio”, ed è
un po’ come se stesse tutto lì: era
un’ebbrezza, una grande scarica di
adrenalina, rivoluzionaria, ma sot-
to sotto volevano restare ragazzi-
ni». Qui scende il silenzio. Penso a

Elsa Morante, a cosa avrebbe detto
se avesse saputo che il mondo non
sarebbe stato salvato dai ragazzini.
Intanto Carlo mi mostra in bianco e
nero la grande spianata deserta,
quando tutto ormai è finito e ci so-
no solo cartacce: «Molte cose nac-
quero da quei tre giorni. Non parlo
solo di figli... Neanche dieci anni do-
po, io stesso ero presente al Festi-
val dei Poeti di Castelporziano che
fu vissuto come una Woodstock di
casa nostra. Ma il clima era già di-
verso, tutto stava cambiando. E og-
gi ci troviamo con l’America in ma-
no a Trump... Sono stato nell’India-
na a fare delle lezioni all’Università
e un professore mi diceva che vici-
no a casa sua, liberamente, è torna-
to ad addestrarsi il Ku Klux Klan».
Su questo dettaglio scopriamo di
aver esaurito le foto, i ricordi, le im-
pressioni. Cinquant’anni? Sembra-
no tre secoli.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

kIl presidente Sandro Pertini a Vermicino sul luogo della tragedia


A cinquant’anni


dall’evento, abbiamo


incontrato il regista


grande esperto


di rock che all’epoca


del festival aveva


diciotto anni


Racconta l’impatto


di quel concerto


sulla sua generazione


“Jimi Hendrix ha


colorato la mia vita”


pagina. 30 Lunedì, 12 agosto 2019

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