Le prime concessioni di arresti domiciliari per il coronavirus.
La mattina dopo passarono dalle celle alcuni appuntati che chiesero a tutti i detenuti di scrivere su
un foglio un elenco di malattie di cui soffrivano; le guardie non spiegarono il perché, ma io intuii
che, in ottemperanza ad una disposizione del governo, tutti i carcerati che avessero sofferto di
malattie gravi avrebbero potuto usufruire degli arresti domiciliari per evitare i rischi connessi al
coronavirus che avrebbe potuto mietere molte vittime se fosse arrivato in carcere.
In verità molti detenuti della sezione, affetti da qualche patologia, intuirono l’opportunità unica di
poter rientrare a casa, e quelli che sapevano che ero un medico, praticamente tutti, iniziarono una
processione alla mia cella per farsi aiutare a compilare un elenco, e dovetti lavorare sodo per
diverse ore, traducendo in termini scientifici le malattie che mi riferivano con definizioni spesso
non appropriate, e riportarli sulla scheda di ciascuno.
Iniziai ovviamente dalla mia cella, ove non si evidenziavano particolari patologie, ma tutti
desideravano esasperarne la gravità perché avevano capito l’opportunità.
Ovviamente feci capire loro che raccontare frottole non sarebbe stato utile perché in ogni caso
esisteva già una cartella sanitaria per ciascun detenuto e quindi gli addetti avrebbero sicuramente
confrontato i dati.
In ogni caso fui pienamente disponibile con tutti e quell’impegno durò diverse ore.
Uno dei due capi della cella, il più giovane, quello che più mi era stato vicino e mi aveva dimostrato
la sua stima e protezione, venne vicino a me e disse esaltato: “dottò, adesso è il vostro momento, è
una grande opportunità per voi perché avete malattie serie da 40 anni, come ci avete riferito quella
volta che siete andato in ospedale, e non potete rimanere chiuso qua dentro. Se arriva il virus non
sopravvivete, fidatemi di me, ne ho visti morire tanti di carcerati! Voi siete incompatibile col